Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16083 del 29/03/2018


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 16083 Anno 2018
Presidente: GALLO DOMENICO
Relatore: SGADARI GIUSEPPE

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:
1) De Marzio Antonio, nato a Gravina di Puglia il 24/12/1968,
2) Garibaldi Rosaria, nata a Bad Kreuznach (Germania) il 27/03/1968,
3) De Marzio Carla, nata a Gravina di Puglia il 18/07/1992,
avverso il decreto del 06/10/2016 della Corte di Appello di Bari;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione della causa svolta dal consigliere Giuseppe Sgadari;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto
Procuratore generale Mariella De Masellis, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte di Appello di Bari confermava il
decreto del Tribunale di Bari – Sezione Misure di prevenzione – del 23 settembre
2015, con il quale era stata applicata al De Marzio Antonio la misura della
sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per tre
anni, la cauzione di euro 5.000 e la confisca dei beni, estesa, quest’ultima, anche
1

Data Udienza: 29/03/2018

a cespiti appartenenti alle altre due ricorrenti, Garibaldi Rosaria e De Marzio
Carla, rispettivamente moglie e figlia del De Marzio Antonio.
2. Ricorrono per cassazione Antonio De Marzio, Rosaria Garibaldi e Carla De
Marzio, a mezzo del loro comune difensore e con unico atto, deducendo la
perdita di efficacia del provvedimento di confisca dei beni.
2.1 Sottolineano, in primo luogo, i ricorrenti, che il ricorso in appello avverso il
decreto genetico emesso dal Tribunale di Bari, era stato depositato in cancelleria
il 24 ottobre del 2015, sicché, ai sensi dell’art. 27, comma 6, D.L.vo 159/2011, il

pronuncia della Corte di Appello, dopo un anno e sei mesi dal deposito del ricorso
e, cioè, il 23 aprile del 2017; dovendosi fare riferimento, per stabilire il dies ad
quem, alla data del deposito del provvedimento da parte della Corte di Appello e
non a quella della lettura del dispositivo.
Nel caso in esame, il provvedimento impugnato era stato depositato il 24 ottobre
del 2017, oltre la scadenza del termine prorogato.
2.2. In ogni caso ed in secondo luogo, i ricorrenti sostengono che la proroga del
termine sia stata concessa fuori dai casi previsti dalla legge e, cioè, non in
ragione della complessità delle indagini o della presenza di compendi patrimoniali
rilevanti, così come espressamente previsto dall’art. 24, comma 2, D.L.vo
159/2011, quanto per l’impedimento del giudice relatore all’udienza del 14 luglio
2016, così come emerge dal verbale di quell’udienza allegato al ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è manifestamente infondato.
1. Nella giurisprudenza di questa Corte, e’ pacifico ritenere che, in applicazione
della regola di cui all’art. 14 cod.pen., la scadenza di un termine stabilito a mesi,
si verifica nel giorno corrispondente a quello in cui è iniziata la decorrenza,
secondo il calendario comune, indipendentemente dal numero dei giorni di cui è
composto il singolo mese (argomenta da Sez. 5, n. 9572 del 25/01/2008,
Verzellino, Rv. 239114, in materia di calcolo del termine per proporre querela).
Il deposito del provvedimento impugnato è intervenuto entro il termine
prorogato dalla Corte di Appello, pari a complessivi due anni dal deposito del
ricorso in appello (un anno e sei mesi, più sei mesi di proroga, ex art. 24,
comma 2, richiamato dall’art. 27, comma 6 D.L.vo 159/2011).
Infatti, il ricorso in appello è stato depositato il 24 ottobre del 2015 ed il decreto
impugnato è stato depositato il 24 ottobre del 2017.
Pertanto, il provvedimento di confisca, sotto questo aspetto, non ha perso
efficacia.

provvedimento di confisca avrebbe dovuto ritenersi inefficace, in assenza di una

2. Quanto al secondo profilo del ricorso, che investe la legittimità del
provvedimento di proroga del termine, adottato dalla Corte di Appello ex art. 24,
comma 2, D.L.vo 159/2011, deve osservarsi che dalla lettura degli atti – cui la
Corte può accedere in ragione della natura processuale della questione – risulta
che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la proroga del termine di
sei mesi, come risulta testualmente dal verbale dell’udienza del 14 luglio 2016,
era stata disposta in ragione della “complessità degli attre non per il fatto che si
fosse verificata l’assenza del relatore della causa alla medesima udienza.

con valutazione di merito qui non sindacabile, alle esigenze giustificative della
proroga previste dall’art. 24, comma 2, D.L.vo 159/2011, che, per l’appunto,
consentono alla Corte di Appello di adottare tale provvedimento in
considerazione di “indagini complesse”, peraltro documentate, nel caso in
esame, anche dal ponderoso provvedimento impugnato.
Si deve aggiungere che la difesa, come risulta sempre dal medesimo verbale di
udienza, non si era neanche opposta alla richiesta di proroga avanzata dal
Procuratore Generale, nulla osservando in proposito e, dunque, prestando
acquiescenza rispetto a qualunque supposto (ma in realtà non sussistente) vizio
genetico della richiesta per carenza dei suoi presupposti.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti
al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno
alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa degli stessi
ricorrenti nella determinazione della causa di inammissibilità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro duemila ciascuno in favore della Cassa delle
Ammende.
Così deliberato in Roma, udienza in camera di consiglio del 29.03.2018.
Il Consigliere estensore
Giuseppe Sgadari

Il Presidente
Dyrenico Gallo

In tal modo, la Corte si è esplicitamente, ancorché sinteticamente, richiamata,

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