Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23994 del 23/10/2013


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Civile Sent. Sez. 5 Num. 23994 Anno 2013
Presidente: PIVETTI MARCO
Relatore: IOFRIDA GIULIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t.,
domiciliata in Roma Via dei Portoghesi 12, presso
l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e
difende ex lege

– ricorrente –

250-

contro

Notarangelo ‘Michele
– intimato

avverso la sentenza n. 479/40/07 della Commissione
Tributaria regionale del Lazio, Sezione Staccata di
Latina, depositata il 27/8/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 9/11/2012 dal Consigliere Dott. Giulia
Iofrida;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore
generale Dott. Pasquale Fimiani, che ha concluso per
l’accoglimento del primo e del terzo motivo del
ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 479 del 5/7/2007, depositata in data

27/8/2007,

la Commissione Tributaria Regionale del

Lazio Sez. 40 respingeva, con compensazione delle spese
di lite,

l’appello proposto, in data 13/1/2006, da
1

Data pubblicazione: 23/10/2013

Agenzia delle Entrate Ufficio di Cassino, avverso la
decisione n. 132/4/2005 della Commissione Tributaria
Provinciale di Frosinone che aveva accolto il ricorso
avanzato da Notarangelo Michele avverso l’avviso di
accertamento n. RC07000009, notificato il 17/5/2003,
relativo ad IRPEF, IVA, IRAP anno 1998, con il quale,
applicando i parametri di cui all’art.3 comma 181
L.549/1995, veniva accertato il maggior reddito di

La Commissione Tributaria Regionale respingeva il
gravame dell’Ente impositore, in quanto rilevava che,
da un lato, erano fondati i rilievi mossi dalla C.T.P.
alla motivazione dell’avviso di accertamento, carente
in punto di “iter logico adottato per la determinazione
del compensi omessi e delle consequenziali rettifiche
dei volumi di affari e del reddito di lavoro autonomo
dichiarato”

e, dall’altro lato, il contribuente aveva

offerto adeguata prova contraria all’accertamento
induttivo dell’Agenzia delle Entrate, in particolare
dimostrando, con la produzione di un atto di diffida e
messa in mora in data 21/9/2001 diretto alla AUSL di
Frosinone, di non avere percepito da detto Ente
compensi, quanto all’anno 1998, per 226.288.356.
Avverso tale sentenza ha promosso ricorso per
cassazione l’Agenzia delle Entrate, deducendo tre
motivi di ricorso per cassazione, per violazione di
legge, ex art.360 n. 4 c.p.c. (Motivo 1, in relazione
agli artt.132 c.p.c. e 36 d.lgs. 546/1992, non essendo
stata nella sentenza ricostruita la fattispecie
concreta ed i tratti essenziali della lite) e n. 3
c.p.c. (Motivo 2, in relazione agli artt.42 DPR
600/1973, 3, comma 181, L.549/1995, in combinato
disposto con l’art.2728 c.c. e 2697 c.c., non avendo il
giudice tributario riconosciuto il valore di
presunzione legale ai parametri presuntivi di reddito
applicati nell’accertamento, a seguito di
contraddittorio

correttamente

instaurato

con

il

contribuente), e per vizio motivazionale, ex art.360 n.

lavoro autonomo del contribuente.

5 c.p.c. (Motivo 3, non avendo il giudice tributario
dato adeguatamente conto delle ragioni in fatto che lo
hanno condotto a ritenere non sufficientemente motivato
l’avviso di accertamento ed infondata la pretesa
tributaria).
Non ha resistito il resistente con controricorso.
Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso, inerente un

error in

d.lgs. 546/1992, stante la carenza, nella sentenza
impugnata, della ricostruzione della fattispecie
concreta e dei tratti essenziali della lite, è
infondato, essendo sufficiente, ai fini delle norme
procedurali richiamate dalla ricorrente, l’esposizione
del fatto controverso effettuata attraverso la sintesi
dei contenuti ricorso e della sentenza della C.T.P.,
comunque riportati nella decisione della C.T.R. qui
impugnata.
Con il secondo motivo di ricorso, l’Agenzia delle
Entrate denuncia, sotto il vizio di violazione di legge
della sentenza impugnata, la non corretta applicazione
della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181 ss.,

D.P.R.

n. 600 del 1973, art. 39, artt. 2697 e 2727 c.c.
affermando essenzialmente che il valore presuntivo dei
parametri determini un inversione dell’onere della
prova a carico del contribuente, il quale dovrà provare
le ragione del suo mancato adeguamento ai limiti
previsti dallo strumento accertativo.
Il ricorso non è fondato.
Questa Corte ha chiarito che la procedura di
accertamento tributario standardizzato mediante
l’applicazione dei parametri o degli studi di settore
costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui
gravità, precisione e concordanza non è “ex lege”
determinata dallo scostamento del reddito dichiarato
rispetto agli “standards” in sé considerati – meri
strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica
della normale redditività – ma nasce solo in esito al

3

procedendo per violazione degli artt.132 c.p.c. e 36

contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la
nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale
sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza
limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la
sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione
dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere
applicati gli “standards” o la specifica realtà
dell’attività economica nel periodo di tempo in esame,

esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere
integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in
concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni
per le quali sono state disattese le contestazioni
sollevate dal contribuente. L’esito del
contraddittorio, tuttavia, non condiziona
l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice
tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità
degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi
dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal
contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle
eccezioni sollevate nella fase del procedimento
amministrativo e dispone della più ampia facoltà,
incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non
abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede
amministrativa, restando inerte. In tal caso, però,
egli assume le conseguenze di questo suo comportamento,
in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla
sola base dell’applicazione degli “standards”, dando
conto dell’impossibilità di costituire il
contraddittorio con il contribuente, nonostante il
rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro
probatorio, la mancata risposta all’invito (cfr. Cass.
S.U. 26635/2009, Cass. 12558/2010, Cass.12428/2012,
Cass.23070/2012). In termini di onere della prova,
nella citata sentenza delle Sezioni unite, si è
affermato, schematicamente, che

“l’onere della prova

(…) è così ripartito:a) all’ente impositore fa carico
la dimostrazione dell’applicabilità dello standard

4

mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può

prescelto al caso concreto oggetto dell’accertamento;
b) al contribuente (…) fa carico la prova della
sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione
dell’impresa dall’area dei soggetti cui possano essere
applicati gli standard o della specifica realtà
dell’attività economica nel periodo di tempo cui
l’accertamento si riferisce”.
Come successivamente precisato ulteriormente da questa

fine e l’effetto del principio di diritto affermato
delle Sezioni Unite è stato quello di porre in luce
l’importanza del contraddittorio, non solo nel processo
ma anche nella realtà, quale strumento principale di
verificazione o falsificazione della corrispondenza tra
realtà e sua rappresentazione, in quanto proprio

“in

sede di contraddittorio – il quale può avvenire già in
fase amministrativa, ma anche e soprattutto nel
giudizio – il contribuente potrà in primo luogo dedurre
e dimostrare che i parametri utilizzati sono in sé
erronei perché sono basati su elementi fattuali non
corrispondenti alla realtà o su criteri di elaborazione
e potrà quindi chiedere

e di inferenza illogici”

l’annullamento del provvedimento che li ha approvati
ovvero dedurre e dimostrare che l’Ufficio impositore è
incorso in errore operativo nell’applicare i parametri
alla sua realtà ovvero ancora dedurre o l’estraneità
della propria attività rispetto alla tipologia alla
quale quei parametri intendono riferirsi o la
sussistenza, nella propria attività di caratteri per
così dire anormali, cioè di elementi che la
diversificano rispetto a quelle in riferimento alle
quali è stata individuata la normalità reddituale.
Ove il contribuente, pur essendo stato messo in
condizione di dedurre, nulla dice, legittimamente
“l’Ufficio impositore prima e il giudice poi non
avranno elementi per escludere che l’attività in
questione sia un’attività “normale” ed abbia quindi una
redditività normale”;

ove il contribuente prospetti

5

Corte, in una recente pronuncia (Cass.3312/2011), il

invece la sussistenza di circostanze di fatto, tali da
allontanare la sua attività dal modello normale al
quale

i

parametri

fanno

riferimento,

“spetterà

all’ufficio prima e al giudice poi valutare in primo
luogo se tali circostanze sono vere e poi se esse
possono essere effettivamente idonee a “giustificare”
un reddito inferiore a quello che sarebbe normale e
quindi presuntivamente vero in assenza di esse”.
In sostanza, i parametri previsti dall’art. 3, commi da

la risultante dell’estrapolazione statistica di una
pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di
contribuenti e dalle relative dichiarazioni,

rivelano

valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il
presupposto per il legittimo esercizio da parte
dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo ex
art. 39, comma l, lett. d, DPR 29 settembre 1973 n.
600, e, soltanto ove siano stati contestati, in sede di
contraddittorio con il contribuente, sulla base di
allegazioni specifiche, sono inidonei a supportare da
soli l’accertamento medesimo, se non confortati da
elementi concreti desunti dalla realtà economica
dell’impresa.
Nella fattispecie, pur vertendosi in ipotesi nella
quale, come si evince dal ricorso, il contribuente
aveva risposto all’invito dell’Ufficio impositivo al
contraddittorio, il ricorso dell’Agenzia delle Entrate
sostiene, al contrario, la sufficienza del solo
“scostamento” dei redditi dichiarati rispetto a quelli
risultanti dall’applicazione dei parametri ai fini
della legittima rideterminazione del reddito del
contribuente, attribuendo esclusivamente a quest’ultimo
ogni onere probatorio. Il che non è corretto alla luce
dei principi di diritto espressi da questa Corte a
Sezioni Unite.
Il terzo motivo, involgente vizio di motivazione,
invece fondato.
Invero, poiché la controversia verteva sui maggiori

181 a 187, l. 28 dicembre 1995 n. 549, rappresentando

ricavi

accertati

contribuente,

dall’Ufficio
già

per

previamente

i

quali

invitato

il
al

contraddittorio nella fase endoprocedimentale, aveva
addotto di non averli realmente incassati nell’anno di
imposta oggetto dell’accertamento (1998), il giudice
tributario

doveva

meglio

precisare

quale

era

l’ammontare del reddito accertato dall’Ufficio e quale
l’entità dello scostamento rilevato rispetto alla

perché le giustificazioni offerte dal contribuente, in
ordine alla mancata percezione di compensi nell’anno
1998, fossero congrue e costituissero idonea prova
contraria. Infatti, a fronte di una pretesa fiscale
fondata su di una prova per presunzione (nella specie,
in primis,

un credito del contribuente da compenso per

prestazione professionale), il contribuente, per
resistere, deve contrastare tale prova e quindi, a
questo fine, ha l’onere di dimostrare un fatto,
positivo, vale a dire la percezione del reddito in un
periodo diverso da quello ritenuto, sulla base di un
preciso riferimento probatorio, dalla Amministrazione,
ovvero la esistenza di impedimenti alla percezione o
comunque di fattori idonei ad impedire l’incasso
tempestivo dei compensi (Cass.Trib. 1508/1990).
Invece, nella sentenza impugnata, si legge soltanto
che, da un lato, andava confermata la censura mossa
dalla CTP alle carenze di motivazione dell’atto
impugnato e, dall’altro, il contribuente aveva allegato
al ricorso “copia di un atto di diffida e messa in mora
in data 21/9/2001 con il quale egli aveva richiesto
alla AUSL di Frosinone il pagamento di compensi per un
importo complessivo di £ 1.266.367.306 di cui £
226.188.356 relative all’anno 1998”.
Giova ribadire che il vizio di omessa motivazione
sussiste quando nella motivazione non sia chiaramente
illustrato il percorso logico seguito per giungere alla
decisione e non risulti comunque desumibile la ragione
per la quale ogni contraria prospettazione sia stata

7

dichiarazione del contribuente, al fine di ben chiarire

ESENTE D
Al SENSI
– 5
N. 131
MATERIA TRIBUTARIA

disattesa.

Il ricorso deve essere pertanto accolto, quanto al
terzo motivo, vizio motivazionale ex art.360 n. 5
c.p.c., rigettati gli altri, e la sentenza impugnata
deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della
CTR del Lazio, che procederà a nuovo esame, sulla base
dei principi di diritto sopra esposti, e provvederà
anche in ordine alle spese del presente giudizio di

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo ed il secondo motivo del
ricorso, accoglie il terzo motivo, cassa la sentenza
impugnata, con rinvio, anche per le spese del giudizio
di legittimità, ad altra Sezione della Commissione
Tributaria del Lazio.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta

legittimità.

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA