Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 40317 del 26/04/2016

Penale Sent. Sez. 3 Num. 40317 Anno 2016
Presidente: GRILLO RENATO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

Sui ricorsi proposti da:
– A.A.
– B.B.

avverso la sentenza della Corte d’appello di MILANO in data 10/06/2015;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. P. Canevelli, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio
dell’impugnata sentenza perché il fatto non sussiste;

Data Udienza: 26/04/2016

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 10/06/2015, depositata in data 24/07/2015, la
Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del tribunale di Pavia, ex
tribunale di Voghera, del 18/11/2013, appellata dagli attuali ricorrenti, che li
aveva riconosciuti colpevoli del reato di cui all’art. 4, d. Igs. n. 74 del 2000,
relativamente all’anno di imposta 2007, condannandoli alla pena di 1 anno di

oltre alle pene accessorie temporanee determinate nella stessa misura di quella
principale.

2. Hanno proposto congiunto ricorso A.A. e B.B.
a mezzo del comune difensore fiduciario cassazionista, impugnando la sentenza
predetta con cui deducono quattro motivi, di seguito enunciati nei limiti
strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deducono, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c), cod. proc.
pen., per violazione degli artt. 552 e 522 cod. proc. pen. con conseguente nullità
della sentenza ex art. 185 cod. proc. pen.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostengono i
ricorrenti, la Corte di appello avrebbe erroneamente respinto il motivo di appello
con cui si contestava la nullità della imputazione per non essere la stessa stata
formulata in forma chiara e precisa; la Corte d’appello ha rigettato l’eccezione
sostenendo che la mera specificazione dei periodi in cui gli imputati avevano
rivestito la carica di amministratore unico fosse da ritenersi ininfluente perché il
diritto di difesa si era potuto ampiamente esplicare, essendo gli imputati
consapevoli sin dall’origine dei fatti contestatipin realtà, sostengono i ricorrenti,
l’imputazione originaria non consentiva di difendersi, non essendo possibile
identificare rispetto a quale o a quali reati in relazione ai diversi periodi
d’imposta, ciascuno degli imputati fosse chiamato a rispondere; inoltre, si
aggiunge, la semplice indicazione del periodo temporale in cui ciascuno degli
imputati ha ricoperto la carica di amministratore unico della società, senza alcun
riferimento ad una imputazione titolo di concorso, non consentiva di
comprendere a quale dei due imputati fossero ascritte le infedeltà per ciascun
periodo d’imposta, trattandosi di reati formali per cui vi sono scadenze previste,
al cui mancato rispetto si collega la punibilità della fattispecie; che del resto il
capo d’imputazione non fosse chiaro, è dimostrato dal fatto che in sentenza è
stata riconosciuta un’ipotesi concorsuale, mai contestata.
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reclusione ciascuno, condizionalmente sospesa per il solo A.A.,

2.2. Deducono, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) ed e),
cod. proc. pen., per violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. ed omessa
motivazione in ordine alla mancata correlazione tra imputazione e sentenza in
punto di concorso di persone nel reato.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostengono i
ricorrenti, la Corte di appello avrebbe erroneamente respinto la censura
riguardante la mancata correlazione tra la imputazione e la sentenza, avendo

quest’ultima ritenuto ambedue gli imputati colpevoli dell’unica ipotesi di reato
relativa alla dichiarazione infedele per l’anno d’imposta 2007, a titolo di
concorso, laddove la contestazione originaria contemplava unicamente la
responsabilità in capo all’amministratore unico in carica al momento del fatto; la
Corte d’appello avrebbe totalmente omesso di pronunciarsi sul punto limitandosi
ad affermare che la condotta, asseritamente contestata in fatto, rappresentava il
frutto del contributo causale di entrambi gli imputati, alla luce del loro legame
familiare e della condivisione degli interessi societari; la Corte d’appello avrebbe
dunque errato, atteso che non vi è alcun riferimento nella contestazione all’art.
110 del codice penale, sicchè deve ritenersi che la immutazione operata dai
giudici di merito sia lesiva del diritto di difesa, comportando una trasformazione
essenziale del fatto addebitato, non risultando fornita a nessuno dei due imputati
la possibilità di difendersi in relazione ad un’accusa di aver non già posto in
essere la condotta lesiva del bene protetto, bensì di aver fornito un non meglio
definito e comunque mai contestato apporto causale alla condotta dell’altro
imputato.

2.3. Deducono, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) ed e), cod.
proc. pen., in ordine al mancato superamento della soglia di punibilità anche per
l’anno 2007, con riferimento alla mancata generazione di ricavi nell’operazione
con la I.F. immobiliare s.r.l.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostengono ì
ricorrenti, la Corte di appello, nonostante fosse stata investita di apposita
censura riguardante l’operazione sopraindicata, la quale non avrebbe generato
ricavi stante l’inadempienza della società acquirente, non avrebbe minimamente
motivato sulla stessa; per tali ragioni, sostengono i ricorrenti, difettava in
relazione a tale operazione il presupposto della imposizione fiscale, con la
conseguenza che anche per l’anno 2007 l’Iva risultava al di sotto della soglia di
punibilità del fatto, con conseguente necessità di addivenire ad una pronuncia
assolutoria non essendo il fatto previsto dalla legge come reato.

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b,

2.4. Deducono, con il quarto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), cod.
proc. pen., per violazione degli artt. 62 bis cod. pen. e 133, comma primo, n. 2,
cod. pen., e correlati vizi motivazionali.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostengono i
ricorrenti, la Corte di appello non avrebbe risposto adeguatamente alla censura
sollevata con i motivi di appello circa la irrogazione della sanzione
particolarmente elevata, limitandosi a giustificare il trattamento sanzionatorio

riferendosi alla entità dell’imposta evasa; sostengono i ricorrenti che detto
riferimento, in reati caratterizzati dalla presenza di soglie quantitative di
punibilità, non può certo essere rapportato al valore assoluto dell’evasione,
giacché altrimenti non sarebbero mai concedibili le attenuanti generiche nè
potrebbe applicarsi la sanzione nella misura minima; il riferimento dunque
dovrebbe farsi al valore dell’imposta evasa in eccedenza rispetto alla soglia di
punibilità, valutata dal legislatore con il limite della rilevanza penale del fatto;
poiché la soglia di punibilità vigente all’epoca del fatto era pari ad euro
103.291,38, essendo stata contestata una sottrazione d’IVA all’imposizione pari
ad euro 105.866,00, ne discende che l’importo evaso da ritenersi penalmente
rilevante ammontava ad una cifra pari a poco più di C 2000, ciò che avrebbe
consentito sia il riconoscimento delle attenuanti generiche che la irrogazione del
minimo della pena.

CONSIDERATO IN DIRITTO
3. La sentenza dev’essere annullata con rinvio al fine di chiarire l’attuale
perseguibilità penale dei fatti, a seguito dell’intervenuto mutamento della
previsione sanzionatoria per effetto del disposto del d. Igs. n. 158 del 2015.

4. Possono, anzitutto, essere trattati congiuntamente, attesa la omogeneità dei
profili di doglianza ad essi sottesa, il primo ed il secondo motivo di ricorso, con
cui i ricorrenti contestano la formulazione del fatto in forma chiara e precisa
quanto alla fattispecie di reato contestata anche in relazione all’esito
condannatorio nonchè, ancora, l’aver la Corte d’appello pronunciato condanna a
titolo di concorso, laddove l’imputazione era stata contestata singolarmente a
ciascun ricorrente.
Sulla questione, al fine di rilevare la manifesta infondatezza della doglianza, è
sufficiente qui richiamare quanto argomentato dalla Corte d’appello alla pag. 4
della sentenza impugnata (alla cui lettura integralmente si rinvia per ragioni di
economia motivazionale e non essendo del resto richiesto né imposto a questa
4

k

Corte di ripercorrere le argomentazioni giustificative dei giudici di merito che
imporrebbero alla Corte di legittimità una ricognizione degli elementi di fatto
oggetto di apprezzamento da parte del giudice di merito, ciò che fuoriesce
dall’ambito cognitivo del giudice di legittimità), la quale spiega dettagliatamente
le ragioni per le quali, da un lato, non poteva ritenersi violato il principio di
correlazione, e, dall’altro, perché il reato potesse considerarsi frutto della volontà

La Corte territoriale mostra, infine, di far buongoverno del principio, più volte
affermato da questa Corte, secondo cui non sussiste violazione del principio di
necessaria correlazione tra accusa e sentenza quando, contestato a taluno un
reato commesso “uti singulus”, se ne affermi la responsabilità in concorso con
altri (Sez. 6, n. 21358 del 05/05/2011 – dep. 27/05/2011, Cella, Rv. 250072;
Sez. 6, n. 24438 del 06/05/2005 – dep. 28/06/2005, Musiu ed altri, Rv. 231855;
Sez. 1, n. 2794 del 29/01/1998 – dep. 04/03/1998, Presti, Rv. 210005). Ne
discende, pertanto, che l’aver il giudice ritenuto responsabili in concorso i due
ricorrenti a fronte dell’imputazione originaria che articolava la contestazione “uti
singuli” a ciascuno di essi, in applicazione di tale giurisprudenza, non comporta

alcuna violazione di legge.

5. Passando poi ad esaminare il terzo motivo di ricorso, con riferimento alla
operazione commerciale Ifimm s.r.l./Inner, il motivo di appello su cui la Corte
d’appello non avrebbe motivato era, ad avviso di questo Collegio, sin dall’origine
manifestamente infondato.
Ed invero, l’affermazione secondo la quale l’operazione non avrebbe generato
ricavi per la Immer difettando il presupposto della imposizione fiscale, oltre non
essere stata documentata (essendo rimasta al rango di labiale affermazione dei
ricorrenti davanti a questa Corte, laddove, invece, in tema di ricorso per
cassazione, è onere del ricorrente, che lamenti l’omessa o travisata valutazione
di specifici atti processuali, provvedere alla trascrizione in ricorso dell’integrale
contenuto degli atti medesimi, nei limiti di quanto già dedotto, perché di essi è
precluso al giudice di legittimità l’esame diretto, a meno che il “fumus” del vizio
non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso: Sez. 1, n. 6112
del 22/01/2009 – dep. 12/02/2009, Bouyahia, Rv. 243225), non incide sulla
determinazione della soglia di punibilità per il periodo di imposta 2007, atteso
che – in relazione al predetto periodo- la stessa era da considerarsi operazione
sicuramente imponibile in quanto consistente nella vendita di due appartamenti
per un importo di C 220.000 oltre Iva nella misura del 10% pari ad euro
20.000,00 che, a dire della difesa, solo l’anno successivo a quello di riferimento
5

comune degli imputati, padre e figlio.

agli effetti del presente giudizio, ossia in data 22 febbraio 2008, sarebbe stato
oggetto di risoluzione per inadempimento della parte acquirente. La difesa non
solo non si è nemmeno fatta carico di fornire la prova documentale di quanto
sopra al fine di far rilevare la pretesa omissione motivazionale, ma non ha
comunque tenuto conto che, in relazione all’anno d’imposta 2007, sicuramente
tale operazione era da considerarsi rilevante agli effetti fiscali, e dunque avrebbe
dovuto essere esposta nella dichiarazione dei redditi ed Iva, non potendosi

soglia di punibilità.
Trova, conclusivamente, applicazione il consolidato principio, più volte affermato
da questa Corte, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, non costituisce
causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo
di appello che risulti manifestamente infondato (v., tra le tante: Sez. 5, n. 27202
del 11/12/2012 – dep. 20/06/2013, Tannoia e altro, Rv. 256314).

6. Per quanto, infine, concerne il diniego delle circostanze attenuanti generiche e
le censure attinenti al trattamento sanzionatorio, deve anzitutto premettersi che
la Corte d’appello ha ritenuto prevalenti in senso escludente l’articolo 62 bis
codice penale i precedenti a carico di entrambi gli imputati. Trattasi di
operazione corretta in diritto, poiché, come più volte affermato da questa Corte,
la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62-bis cod. pen. è
oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione
fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile
in sede di legittimità, purchè non contraddittoria e congruamente motivata,
neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi
fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del
24/09/2008 – dep. 14/11/2008, Caridi e altri, Rv. 242419).
Quanto poi alla determinazione del trattamento sanzionatorio rispetto al quale la
Corte d’appello, secondo la difesa, non avrebbe tenuto conto della sola differenza
tra l’eccedenza della soglia di rilevanza penale e l’effettivo ammontare
dell’imposta evasa, deve qui rilevarsi che, in relazione all’articolo 4, decreto
legislativo n. 74 del 2000, rileva non soltanto l’indicazione dell’evasione di
imposta, ma anche l’ulteriore parametro indicato dalla legge: in ogni caso
corretto è il riferimento al complessivo ammontare dell’imposta evasa e la pena
base è stata determinata in un anno e sei mesi di reclusione, che, tenuto conto
dei limiti e di pena (da uno a tre anni) non è superiore al medio edittale.
Trova quindi applicazione il principio, più volte affermato da questa Corte,
secondo cui in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata
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quindi la stessa computare in diminuzione al fine di ritenere non raggiunta la

una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e
dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al
criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui
all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015 – dep. 23/11/2015,
Scaramozzino, Rv. 265283).

7. Deve, tuttavia, rilevarsi che dalla motivazione della sentenza impugnata non è

chiara l’esatta determinazione dell’imposta sui redditi evasa; ed infatti, si legge
alle pagg. 4 e 5 della sentenza che, relativamente all’annualità 2007, in sede di
dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi la società non aveva
indicato alcun ricavo, pur registrando in contabilità fatture per C 1.385.000, né
esposto alcun utile o perdita, la situazione economico patrimoniale al 31
dicembre 2007 riportava un utile pari ad euro 441.583 ed era indicata al rigo
RM2 con una perdita pari a C 6, mentre al rigo VL39 era riportato un totale di Iva
a credito pari ad euro 65.024,00, mentre in contabilità era annotato un credito
pari ad euro 14.507. Affermano i giudici di appello che la società aveva
presentato dichiarazione infedele, dichiarando redditi per cessione di beni e
prestazioni pari a zero a fronte di ricavi ricostruiti in C 1.605.000. Si aggiunge
ancora che, come riferito dal Matera, le dichiarazioni dei redditi annuali, per
espressa richiesta di B.B., erano state presentate in bianco con
operazioni attive passive pari a zero, donde la necessità per la Guardia di
Finanza di procedere alla ricostruzione analitica di ricavi e volumi d’affari,
giungendo a determinare gli importi accertati.
Ora, se per quanto riguarda la dichiarazione Iva è possibile dalla motivazione
della sentenza individuare in modo certo l’ammontare dell’imposta evasa, non
altrettanto deve rilevarsi con riferimento all’imposta sui redditi, tenuto conto
della struttura della fattispecie penale oggetto di contestazione. Ed infatti, l’art.
4, d. Igs. n. 74 del 2000, richiede ai fini della punibilità del reato di dichiarazione
infedele la doppia soglia indicata dal comma primo, ossia richiede
congiuntamente che: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna
delle singole imposte, a euro centocinquantamila; e

che, b) l’ammontare

complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante
indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento
dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o,
comunque, è superiore a euro tre milioni. Trattasi di previsione normativa, frutto
delle modifiche introdotte dall’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 24 settembre
2015, n. 158, che si pone in continuità normativa con quella previgente, ma che
si appalesa indubbiamente più favorevole atteso l’innalzamento delle soglie di
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i

.

punibilità operato dal legislatore del 2015 (in particolare, da un lato, la soglia di
punibilità correlata all’imposta evasa è stata portata da 50.000,00 a 150.000,00
euro e, dall’altro, la soglia del valore degli elementi attivi sottratti
all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è
stata innalzata da due a tre milioni di euro).

la soglia del valore degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante
indicazione di elementi passivi inesistenti, trattandosi di svolgere un
accertamento fattuale in quanto la norma richiede che le condizioni sussistano
“congiuntamente”, la sentenza dev’essere annullata con rinvio alla Corte
d’appello, altra sezione, al fine di procedere a detta determinazione verificando
la sussistenza, in base alla nuova normativa, del superamento o meno della
doppia soglia di punibilità normativamente richiesta.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte
d’appello di Milano.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 26 aprile 2016

8. Non essendo possibile determinare sulla base della motivazione della sentenza

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